AVAMPOSTO, VIAGGIO NELLA CALABRIA DELLO STRAPOTERE MAFIOSO E DEI GIORNALISTI CHE NON SI PIEGANO. di Sebastiano GULISANO (GLI ITALIANI) Martedì 6 luglio alle ore 18 presentazione alla libreria Trame, via Goito 3/c a Bologna. Intervengono Roberta Mani, Roberto Rossi, Angelo Agostini e Mauro Sarti. Alcuni anni fa mi ero messo a lavorare a un libro sui comuni sciolti per mafia; per motivi che non sto qui a raccontare non l’ho più scritto, ma, documentandomi, ho imparato un po’ di cose. Fra queste, ce n’è una che sulla Calabria, i calabresi e la ’ndrangheta m’ha fatto comprendere più di tanti saggi, di inchieste della magistratura, di relazioni dell’Antimafia. Sono nato e cresciuto in un comune jonico-etneo di 14mila abitanti, uno dei 58 della provincia di Catania, il ventesimo per popolazione residente. Un paese di dimensioni medio-piccole, insomma, dove ci si conosce tutti e si sa tutto o quasi di ognuno: facce, nomi, titolo di studio, parentele, mestieri, amanti, conti in banca, relazioni politiche, posizione militare, precedenti penali eccetera. Un comune di 14mila abitanti è un grande cortile in cui le notizie circolano con facilità ed è anche facile verificarle attraverso altre fonti: volendo, ciascuno potrebbe schedare tutti gli altri paesani, anche solo per gioco, per ammazzare la noia, senza secondi e reconditi scopi. La Calabria l’ho sempre attraversata senza fermarmici, in treno o in macchina, in autobus o su un camion, da sud a nord e all’inverso. Sì, qualche posto l’ho anche visto, ma non posso dire di conoscerla, la Calabria. Ciò che so lo devo al fatto che da circa un quarto di secolo studio le mafie e, dunque, anche la ’ndrangheta. A lungo mi sono chiesto come mai, a differenza che in Sicilia, in Calabria non avesse mai attecchito un movimento antindrangheta radicato e diffuso, ma di risposte non ne avevo mai trovate. Non di convincenti. Poi ho cominciato a lavorare sui comuni sciolti per mafia e m’ha colpito il dato relativo agli abitanti di ciascun comune calabrese: Riposto, il mio paese, in confronto è una metropoli. E ho capito. La Calabria conta poco più di due milioni di abitanti, una superficie di 15mila kmq di cui solo il 9% è pianeggiante, il restante 91% è metà montuoso e metà collinare; 409 comuni, la città più popolosa – Reggio, 180mila abitanti – è grande quanto un quartiere di Palermo (800mila), la trentesima città della regione – Cittanova – conta poco più di 10mila abitanti (quattromila in meno del mio paese); il 40% dei comuni calabresi ha una popolazione inferiore ai 2000 abitanti. Non solo. Spesso, anche comuni minuscoli sono divisi in tre o quattro frazioni distanti fra loro alcuni chilometri. E ho capito. Guardando i numeri, le nude le cifre ho capito più di quanto avessi appreso in anni e anni di “studi criminali”: se al mio paese ci si conosce tutti, figurarsi in posti così minuscoli: qui, oltre a conoscersi, è facile che si sia tutti più o meno imparentati; qui basta poco per controllare del territorio – basterebbe poco anche allo Stato, ma non lo fa –, bastano poche persone per esercitare un controllo visivo continuo, basta poco a intimidire, basta poco per controllare anche i respiri delle persone. Di tutte, nessuna esclusa. In luoghi così, persino i cento passi di Peppino Impastato sembrano chilometri. Qui il potere delle cosche – delle ’ndrine – sa di onnipotenza. E finalmente ho capito. Ho capito perché la ’ndrangheta sia potuta diventare la più potente organizzazione criminale italiana. E la più sottovalutata, almeno fino all’omicidio di Francesco Fortugno e alla strage di Duisburg. E perché fosse difficile ribellarsi, molto più difficile che in Sicilia o in Campania. Difficile, non impossibile. Come hanno dimostrato e dimostrano le ragazze e i ragazzi di E ora ammazzateci tutti, come dimostrano commercianti e imprenditori che denunciano il racket (circa 1.300 nel quadriennio 2005-2008, secondo i dati di Sos Impresa), come dimostra ogni giorno un drappello di giornalisti che quotidianamente racconta quella lingua di terra in fondo allo Stivale in cui il potere della ’ndrangheta sembra intangibile, regolabile solo al suo interno. Quest’ultimo aspetto – il mestiere di giornalista in Calabria – ce lo raccontano Roberta Mani e Roberto Rossi in Avamposto, un lungo reportage nella Calabria dei giornalisti infami dove «non ci sono eroi, solo persone a rischio per aver creduto nel diritto di cronaca», sottolineano i due autori, che per il sindacato e l’ordine dei giornalisti curano il Rapporto annuale di Ossigeno, l’osservatorio Fnsi-Odg sui giornalisti minacciati in Italia: «Che i numeri erano impressionanti lo abbiamo capito un anno fa, mentre assieme ad Alberto Spampanato e ad Angelo Agostini lavoravamo al Rapporto 2009 di Ossigeno per l’informazione – scrivono nel primo capitolo, Roberta Mani e Roberto Rossi –. Mettendo in fila le storie di tutti i giornalisti minacciati in Italia, ci siamo accorti che la Calabria era la regione più colpita. La pratica degli avvertimenti ai cronisti esponenzialmente più frequente che nel resto del Paese. Era qui che dovevamo venire per approfondire. Raccontare le loro storie, i luoghi dove vivono, le loro paure e il perché delle loro paure, sarebbe stato il modo migliore per riferire del vuoto di democrazia e di libertà che ancora esiste in ampie zone del nostro Paese. E lo abbiamo fatto. Per questo Avamposto non è solo un libro sui cronisti minacciati. È il racconto di una terra, di una terra ancora troppo poco conosciuta, ostaggio della peggiore forma di sovranità». Da Cinquefrondi a Papanice, da Gioia Tauro a Rosarno, da Locri a Vibo Valentia, da Amantea a Catanzaro a Crotone, a Reggio, a Lamezia… Un viaggio che passa per le redazioni centrali e periferiche del Quotidiano della Calabria e di Calabria Ora, per le storie dei colleghi minacciati (17, fra il 2007 e marzo di quest’anno) e, soprattutto, per le storie che loro avevano raccontato prima di ricevere le intimidazioni: uno spaccato di Calabria, d’Italia a sovranità limitata. Uno spaccato in cui il potere ha l’arroganza dei mafiosi, la rispettabilità di pezzi di politica, la parlata forbita di taluni magistrati, la riservatezza di certe logge massoniche. Uno spaccato in cui chi si oppone è ’mpamu, infame, come i collaboratori di giustizia. Infami sono i giornalisti che raccontano, infami i magistrati che indagano, infami persino le madri che chiedono verità e giustizia per i propri figli ammazzati o inghiottititi dalla lupara bianca. ’Mpamu, uno da evitare, da additare, da isolare. Uno da normalizzare. C’è un episodio, narrato in una delle ultime pagine del libro, che la dice tutta sul senso di onnipotenza degli ’ndranghetisti. Febbraio 2005, il consiglio comunale di Crotone, una delle cinque capoluogo di provincia della Calabria, deve discutere se approvare o meno il progetto di un megacomplesso turistico, Europaradiso, un agglomerato di alberghi e residence con una capacità ricettiva di 14mila posti letto, cioè popoloso come il ventesimo comune della regione, su un’are di dieci ettari. Un affare multimiliardario che la mafia del quartiere Papanice vuole a ogni costo; la sera della riunione del consiglio il clan è tutto in aula, dal capocosca all’ultimo soldato, con tanto di cartelli intimidatori: «Statevi attenti, vigileremo su di voi», avvertono. «L’aria è pesante – ricostruiscono Roberta Mani e Roberto Rossi –, “il fior fiore di Papanice” è lì minaccioso. Nessuno osa chiedere di abbassare quei cartelli, nessuno. La seduta viene sospesa, un paio di assessori vanno via lasciando trapelare sui volti afflitti una smorfia a metà fra paura e indignazione. Il “capobanda” balza giù dalle tribune, si arrampica sui seggi, guadagna il primo microfono e urla: “Il Consiglio è valido, ve lo garantisco io a nome mio!” e giù gli applausi dei “manifestanti”. Incoraggiato così dalla farsa intimidatoria del corteo di mafiosi, incede lungo tutta la pianta ovale della sala, spalanca la porta dell’ufficio del sindaco dove è riunita la Giunta durante la sospensione dei lavori e impone che la seduta venga ripresa immediatamente. Detto fatto. Progetto approvato. All’unanimità». Mani e Rossi ci raccontano una storia corale in cui il mestiere di giornalista in Calabria si intreccia con le guerre di mafia, gli affari, le connivenze e le resistenze di tanti che non intendono abbassare la testa, piegarsi, rinunciare alla dignità. Anche a rischio della vita: «Il problema della Calabria – dice il pm Pierpaolo Bruni in apertura dell’ultimo capitolo – si risolverà quando verrà ammazzato qualcuno di noi. A quel punto non ci si potrà più nascondere. Dobbiamo arrivare a questo? Dobbiamo ripetere l’esperienza siciliana, la drammatica esperienza siciliana? Cerchiamo di arrivare prima". |
Post >