Se la memoria non m’inganna l’ultimo giorno da giornalista
dipendente di un quotidiano è stato per me il 30 giugno 1999. Fra precariato,
cassa integrazione, contratti a termine e l’agognata assunzione erano passati poco
più di 10 anni, molti all’Unità e un po’ a Repubblica. Compresi quei sei mesi
nel bunker di via Barberia, nel sottoscala di palazzo Marescotti Brazzetti (insomma
il Dams o l’ex Pci, a scelta) tra busti di Lenin e bandiere rosse, in compagnia
di Luca e Sacco. Era il mio sogno fare il giornalista. Ma potevano andare bene
anche il poliziotto (uno di quelli buoni, un po’ sfigato, che poi come obiettore
di coscienza non avrei potuto neanche avere il porto d’armi, e quel processo
per diserzione e… chissà, ma questo è un altro capitolo) oppure, in alternativa,
il chirurgo. Ho scelto la strada più facile, quella che allora sentivo più
vicina. Il volontariato in una coraggiosa associazione di assistenza ai
disabili ha fatto il resto: avevo a mano notizie, fonti, conoscevo i problemi e
i gruppi dirigenti del meraviglioso welfare alla bolognese (allora). Ero un
contatto utile, un referente prezioso: giovane, precario, instabile, ma utile.
E’ cominciata così la mia strada nel giornalismo professionale e ora che
festeggiamo i dieci anni di vita
dell’agenzia che, prima a Bologna e tra le poche in regione, ha cercato di spostare
il mestiere di giornalista su un orizzonte nuovo rispetto al lavoro dipendente,
è utile una riflessione. Personale e non solo. Assieme a tanti ringraziamenti.
All’Unità nel 1999 si preannunciava la chiusura per la fine dell’anno (originaloni), Veltroni con le sue figurine e le cassette vhs era passato di moda, io ero già finito nel tunnel dei contratti di solidarietà e la cassa integrazione, collaboravo con l’Università di Bologna, Guazzaloca aveva appena salito lo scalone di Palazzo d’Accursio in mezzo a un pugno di saluti romani, e allora basta: con in tasca la buonuscita che l’azienda aveva messo a disposizione per chi voleva levarsi dalle palle prima del tempo, ho lasciato la nave e i suoi marinai. Così, a cavallo di un glorioso Bmw R65 azzurro, motore boxer, bei tempi, ho circumnavigato la penisola per raccogliere informazioni e consigli utili per fare nascere quella che oggi si chiama Agenda e che allora, per qualche anno, tutti chiamavano, e qualcuno chiama ancora, Agenzia Giornalisti Associati. Avventura che, per fortuna, non ho fatto da solo. Tralascio le varie e fisiologiche vicissitudini societarie, per arrivare velocemente al succo di questa veloce carrellata di emozioni tra timoni, cartelle, menabò e – oggi – news multimediali, che hanno caratterizzato il mio “lavoro di gruppo” preferito. Una storia di cui oggi vado orgoglioso, che mi rende più libero di prima e con qualche soldo in meno visto che da lavoratore dipendente, calcolando l’anzianità sia professionale che biologica - ormai vado per i 49 - avrei portato a casa nel tempo un gruzzolo sicuramente più dignitoso. Ma non ho dubbi, ora, come allora. La strada è quella giusta, la salita è quella che sapevo di potere superare. La discesa non è ancora arrivata, ma, come si dice, prima o poi arriverà. Ecco, diciamo: voglio ringraziare tutti. Tutti quelli che in questi 10 anni hanno lavorato con me e con Carla, la mia socia; tutti quelli che ci sono ora, e quelli che oggi sono altrove. Chi se n’è andato in punta di piedi, e chi ci è rimasto male. Chi voleva entrare e non ci è riuscito. Gli ultimi arrivati, gli stagisti, tutti. E anche Willy e signora (ma delle volte è la sorella, o la cugina, o la zia…), l’operaio filippino che nel dopo fabbrica, da una vita, si occupa delle pulizie. Chi ci ha dato lavoro (e ce lo ha pagato nei 180 giorni, e non a 360 come si usa fare oggi), e chi ha preferito altre e più blasonate agenzie. Non serbo rancori per chi ci ha ostacolato, ma preferisco chi ha creduto nel nostro inedito giornalismo sociale, nei nostri uffici stampa, nei titoli delle nostre riviste, in quel “caos calmo” che ci accompagna da sempre e che ha fatto di noi un marchio di garanzia. Di più non abbiamo saputo fare. E io mi prendo una grande responsabilità in tutto questo. Per gli errori, le leggerezze, le promesse mancate alla ricerca di quella svolta che non è mai arrivata, e che forse non arriverà mai. Per noi, per Agenda, per me e Carla, esiste solo la politica dei piccoli passi. Il bilancio che fluttua inevitabilmente tra il rosso e il nero, da un anno all’altro. Gli stipendi da pagare, il lavoro che arriva, e il cliente che si perde. L’editore che ti vuole pagare uno schifo, e quell’evento “che va così di moda…” e che “si paga da solo con la visibilità”. Ma va là. Conosco molti colleghi. Molti giornalisti di oggi e di ieri. Tantissimi ragazzi che lo
vorrebbero diventare, e alcune decine che ci stanno provando proprio in questi
mesi. Studenti miei o altrui. Il futuro della nostra professione. Il futuro
della democrazia in un paese che tanto sta soffrendo. Non spaventatevi,
ragazzi! Il lavoro è ancora bello e utile. Il resto verrà da sé. In un
giornale, nella vostra società, in un sito web, un blog, una web tv, non
importa. Vanno bene anche la Rai o l’agenzia Dire. Ma andate avanti. Non potete
immaginare con quanta curiosità penso ai prossimi 10 anni. (Mauro Sarti)
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